“Figlia di Tetide”, di Maria Antonella D’Agostino, letto da Marco Onofrio

tetide

(Figlia di Tetide, Lilit Books, Montescaglioso 2017, pp. 88, Euro 12)

Il poeta è un essere “scorticato”, diceva Rilke, poiché lavorando con le parole si porta alle radici del “farsi senso” di tutte le cose, e quindi è esposto alla massima fragilità del rischio: può ottenere in dono grandi rivelazioni ma anche incenerirsi nel fuoco che la sua “operazione magica” accende. Molti poeti hanno pagato con la follia lo stigma della loro vocazione. Maria Antonella D’Agostino mette in gioco tanto nei suoi versi: scrive da una condizione consapevolmente rischiosa di apertura al vuoto, di esposizione senza ripari, suffragata da quella particolare sincerità che è anche emanazione di integrità etica, e nasce dunque dallo spasimo ansioso di cercarsi e comprendersi dentro, di non nascondersi niente, di essere onesta fino in fondo con se stessa. Cammina “in bilico / su terreni instabili” che sono via obbligata se si vogliono scavare i terreni del sogno per portare alla luce le radici primordiali della vita.

Da una parte l’immensità spazio-temporale del mondo; dall’altra l’apparato degli strumenti, o meglio dei limiti, che ci sono dati in sorte. La ragione riesce stentatamente ad arginare il caos, la dispersione aperta del suo nulla: “tiene al laccio / le mie vertigini”, scrive la poetessa, ma “vacilla”. L’azzurro dell’armonia cosmica e della completezza spirituale viene prima o poi invaso dal “vermiglio” della vita e dell’esperienza, con le lacerazioni e le combustioni prodotte dai giorni, così che Maria Antonella D’Agostino prega il vermiglio di non tingere l’azzurro, poiché la freschezza pura del pensiero, quando si svuota fino a raggiungere il nulla (o a coincidere con la forma della sua stessa essenza), è la porta principale da cui viene lo stato di grazia, che può concedere attimi irripetibili, scintille che rimangono per sempre. Non sempre però la leggerezza volatile del vuoto è positiva come ad esempio è quella del vento, alla cui “folle libertà” la poetessa si mescola e di cui si abbevera, corpo e anima. Molto più spesso la leggerezza è negativa, è un’ombra che inquieta e schiaccia di devastazione. “Il nulla dilaga, / estirpa ogni pensiero, / vorace, ingoia l’essere”. E allora la poetessa si ritrova “falena, / vestita di fumo”.

Da qui la necessità salvifica di rintracciare le radici non solo per capire ma anche per afferrarsi alla saldezza di una terra interiore capace di restituirle stabilità, cioè equilibrio e pace. La notte è il simbolo arcano di questo Ignoto senza limiti: lo definisce “vortice del vuoto / e del nonsenso”. Perdersi nell’oscurità la intride d’ansia, ma è un sentimento ambivalente perché – allo stesso tempo – brama il silenzio infinito del cosmo e la nutriente solitudine che le comunica. La notte è spoliazione che serve a ritrovare le radici: cadono le scorie dell’inessenziale, tutto infatti si fa invisibile e viene ricondotto alla sua essenza. Le cose “splendono” di oscurità, si accendono di luce interiore. Non vedere con gli occhi della carne consente di vedere con l’occhio centrale della mente, cioè in definitiva con il cuore: “Gli occhi son chiusi / ma il corpo vibra / d’incomprensibile”. Che cosa sia questo fenomeno di accensione spirituale dei sensi che la conduce a un’altra dimensione e le spalanca lo sguardo alla “veggenza” poetica, Maria Antonella D’Agostino lo descrive all’inizio del libro: “È un fervore / che divampa improvviso / e mi forza la mano / a lasciare l’impronta / dei dettami del cuore”. Il poeta cioè è sacramente necessitato a trascrivere ciò che l’ardore gli “detta” dentro, senza farlo spegnere o passare inutilmente. E ancora: “È uno spasmo, / prepotente pulsione” che la obbliga imperiosamente a “trovare l’oblio / nell’alcova dei versi”.

La condizione archetipica da cui sgorga l’espansione poetica di Maria Antonella D’Agostino è appunto l’ascolto del silenzio e della profondità in uno stato di appercezione sopracuta, moltiplicata dalla notte e dalla veglia. Prendono corpo, così, “profili irreali / di orizzonti imprevisti” e le ore notturne allestiscono “teatri onirici / d’inconfessati aneliti”. La notte innesca processi di macerazione attraverso strumenti di analisi e revisione del vissuto e anche del non vissuto (le occasioni mancate, le possibilità inespresse, i sogni irrealizzati). Il tempo interiore, filtrato dalla coscienza e obliterato dagli input delle percezioni, impone un confronto con il tempo del mondo – tra biologia, geologia, evoluzione, presenza fisica della materia/energia e manifestazione dei fenomeni: “La morte intreccia / i lembi dei miei giorni / contro le nuvole”, dove avviene una sorta di scambio-cerniera tra interno ed esterno, pensiero e mondo, spazio interiore della coscienza e realtà oggettiva delle cose esistenti. La notte conduce all’inquietudine del perdersi, del non sapersi, dell’affacciarsi a colloquiare con l’eternità che soggiace alla scansione puntuale delle stagioni, dei giorni, degli attimi: “Nell’oscurità della notte / la mia pelle non trova pace. // Non riconosco la mia età. // Sono nata ieri / o cento anni fa”. I “notturni” spingono la poetessa a percepire veli invisibili e impalpabili presenze: i silenzi delle ore notturne sono “crepe sui muri” che “lacerano” i suoi pensieri. Tra fruscii, parole fluttuanti, brividi, sensazioni, premonizioni, il clima di “allarme” e sospensione rivelatrice conduce a una percezione più sottile e profonda della realtà – negli universi paralleli dei suoi livelli stratificati –; ma proprio quando le cose, come dice Montale, starebbero quasi per tradire il loro “ultimo segreto”, ecco il muro impenetrabile del mistero che le regge dall’interno: “Nessun bagliore / a illuminare l’ignoto, / a svelare brandelli / di quel che sarà”. Il buio è un velo che non si svela: non ci sono strade segnate a guidarci nell’esperienza del vuoto, le dobbiamo creare noi.

Le “ore della notte” si incardinano ad un confronto tra il suono del tempo e il suono del cuore: “Tic… tac… / tic… / e pum… / pum…/ pum…”. I minuti diventano interminabili, il tempo e il cuore sembrano quasi fermarsi. “Goccia a goccia / scandisce il tempo / la pietosa notte / e ammanta di solitudine / sogni e respiri”. La notte è qui definita “pietosa” perché consente una ricomposizione più globale e armoniosa dell’esistenza; in realtà appartiene allo stesso ordine del vuoto che corrode, “tic” dopo “tac”, il battito del cuore che gli oppone provvisoria resistenza. Il tempo è una grande macchina impastatrice dove tutto viene polverizzato: “riavvolge i fili / di aquiloni lontani; / amori mai vissuti / e voglie incontenibili”. Il movimento cosmico a cui tutte le cose obbediscono è circolare: anche gli anni “vorticano” con il loro portato di grumi e ingombri che si mescolano continuamente, e i pensieri disegnano in cielo cerchi che li rivelano in trasparenza. La circolarità di questo movimento porta improvvisamente a raggiungere e raccogliere il centro dell’essere, focalizzato nel “fulcro siderale / del tutto e del nulla” da cui sgorga la musica ipnotica del mare, che inizialmente è quello materiale delle acque e poi tende a trasformarsi nel mare metaforico del cosmo. Infatti “dalla spirale del suono” il cosmo avviluppa l’io della poetessa, la quale sente di appartenergli – a mo’ di infinitesimo granello – così come appartiene al mare, alla dolcezza sacra delle sue “litanie”.

Maria Antonella D’Agostino sa percepire fino in fondo la pesantezza del “fango di questa terra” e la miseria delle “briglie che incatenano l’anima”; ma è capace anche di slanci straordinari che le consentono di danzare “sulle punte dell’anima” e di librarsi “leggera” sulle ali della fantasia. Ed ecco allora il versante “positivo” – quasi un opposto complementare – di un libro che, come abbiamo visto, non nasconde i contrappesi oscuri che preparano e sostengono la portanza liberatrice sprigionata da quelle ali, tanto più efficaci quanto più invisibili. La poetessa trattiene negli occhi le “azzurre scie” dei suoi “voli di libellula”; osserva il divenire inesorabile della natura (“Che cosa importa a un fiore / della follia del mondo?”) e delle stagioni (“trionfa la primavera / sul male / e sul grigiore umano”) che fanno il loro corso malgrado le guerre e le assurdità prodotte dall’uomo. Di tutti i mesi preferisce giugno, “giovane e fresco” perché apre il varco “verso un’altra estate” e rappresenta la bellezza incorrotta delle cose giovani, ancora ricche di futuro. La parola poetica obbedisce, al culmine dell’entusiasmo, a una tensione religiosa e innica di ringraziamento per le armonie che il Supremo Amore del creatore ha impresso in tutto il suo creato (“ogni petalo di fiore / e ogni frutto, / i tappeti d’erba fresca, / la luce e l’ombra, / il sole e la luna”) per cui la scrittura sgorga, come acqua sorgiva, anzitutto dalla capacità di inebriare i sensi nelle melodie dolcissime degli elementi (il vento, il mare) e nell’incanto sfolgorante dei colori (la multiforme luce del tempo), articolando il “credo” fino a salmodiare la bellezza (“canterò il mare e le stelle, / acclamerò / ogni Tua creatura”) e la preghiera (“O Divino Artista, / fa’ di me lo strumento / delle tue verità!”) in modo conforme al suo profondo dettato etico.

Maria Antonella D’Agostino libera potentemente il suo canto d’amore per il mare, che “sa” di eterno e di amore, al punto di farne suo “confidente segreto” e “amante perfetto”. Simbolo cosmico della Vita, che appunto dal mare è venuta, per il suo incessante fluire e il suo dirsi che non ha mai fine, vorrebbe vestirsi di lui, ornarsi di lui, e respirarlo – se fosse aria. “Ma tu sei mare”, sottolinea la poetessa, e il mare non tollera di essere desiderato come cielo, ovvero oceano d’aria e di vuoto: concede i suoi balsami a chi solo lo rispetta e lo ringrazia per quello che è realmente, abbandonandosi con fiducia alla sua forza originaria.

Come velluto
hai accarezzato la mia pelle
donandomi l’ultimo
saluto dell’estate.
Mi sono abbandonata
alla tua voluttà, grata al mondo
del tuo essere mare.

La ricerca del mare si slarga a quello ancestrale, Tetide, l’oceano immenso dei primordi dove la poetessa intuisce la “radice delle radici”, anche della propria. In questo oceano avverte non solo la propria radice antropologica e spirituale, ma anche quella della città dove è nata e vive: Matera. La città dei Sassi non è in realtà lontanissima dal mare, ma la poetessa va oltre: la immagina come il fossile di un mare che non c’è più, “scrigno calcareo / di concrezioni oceaniche”, e addirittura come “gioiello marino / partorito da Tetide, / abbandonato nel vento”:

Ti penso così, Matera,
radice del mio essere:
tra i tufi ancestrali
riesco a immaginare
il profumo del mare.

“Ancestrale” è uno degli attributi che più spesso vengono usati in poesia quando si parla di Matera, tuttavia Maria Antonella D’Agostino sfonda la crosta del luogo comune: la sua ricerca delle radici – della terra, del cielo, di se stessa – è autentica e sentita. Matera è un “altare della Storia” che permette di percepire la sacralità del tempo, dell’uomo, della divinità. La selvaggia durezza delle pietre e le asperità della terra lucana (aridi calanchi, brulle pianure, monti ombrosi) non le impediscono di cercare “nell’azzurro / i confini del silenzio” e, quando possibile, di spiccare il volo. Vede la collina che sfuma verso valle attraverso l’occhio del falco che la rispecchia. Infila il suo sguardo nella infinita particolarità dei “piccoli mondi” dove “saltano i grilli” all’“ombra del rosmarino” e dove si aggira “la lucertola / frusciando leggera / sotto i pini ricurvi / e i folti cespugli / di mirto e lentisco”. Dialoga con i flutti del fiume Sinni, che ancora custodisce i “versi arcani” e i pianti sommessi di Isabella Morra. Si identifica con i “fiori di cappero selvatico” che spuntano sui luoghi “più aspri (…) / profumati di polvere, / d’amaro e acre” affermando con forza e con fede la propria capacità di attraversare il male e rinascere sempre dalle ceneri della vita.

Matera è l’“àncora del tempo” che le consente la stabilità per affrontare Tetide, cioè l’oceano buio dello spazio e del tempo, e la radice primordiale da cui tutto ha avuto origine. Anche la poesia, a ben vedere, è un’àncora del tempo: afferrarsi alle radici di Matera significa ritrovare le proprie origini e, contemporaneamente, quelle da cui può gemmare il seme eterno della poesia, quando non è gioco sterile “a freddo” ma appassionata magnificazione del suo valore di ricerca.

Marco Onofrio

 

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