“Passa il cuore sulla terra” di Tiziana Marini, letto da Marco Onofrio

bolle_sapone

Con Passa il cuore sulla terra (Tracce Edizioni, 2014, pp. 120, Euro 11), secondo libro di Tiziana Marini, trova conferma uno dei talenti più sicuri e autentici della poesia italiana contemporanea. È una poesia nitida, precisa, concreta, asciutta, limpida di cristallo. Ha il dono di quella “semplicità” che non semplifica, ma chiarifica la complessità del mondo fino ad una essenza pregna di risonanze, dove emana la ricchezza traboccante degli enti molteplici e dei fenomeni infiniti, benché riconducibili a un unico principio universale. C’è, nella scrittura di Tiziana Marini, un chiarore opalescente di fuoco minerale – appunto si pensa al cristallo – che assomma le qualità dell’acqua e della terra per accordare esprit de finesse a esprit de geometrie, ovvero l’«aura immortale» e il «giro d’anima» al «ferro a vapore» e al «sapore di pane e noci». Padroneggia un cardine espressivo assai efficace, robusto e versatile al contempo, dove le energie che si condensano accendono a loro volta il fuoco interno che le irradia, come in un processo di autocombustione, per cui si oscilla continuamente tra una dimensione plastica di forme che posano e una musicale di forze che volano. È una poesia che misura il percorso dello sguardo dalle cose più normali a quelle invisibili, da cui ritorna per svelare l’invisibile e l’ignoto che nascondono le cose più normali.

Il mondo invisibile
nel mondo visibile,
di arcobaleni possibili,
di stelle nascoste.

Che poi “normali” le cose non sono affatto, se non per pigrizia mentale e abitudine di semplificazione: a guardarlo bene, anche un granello di sabbia racchiude (e svela) l’infinito. Il bocciolo di rosa, ad esempio, diventa «labirinto prezioso / di forma mandalica». Tiziana Marini chiama in causa le cose più semplici proprio per esprimere le più grandi verità. Il suo “minimalismo”, a differenza di quello oggi così in voga, estrae una radice metafisica e simbolica dagli oggetti più ordinari e quotidiani. Si legga a tal proposito “Il ferro a vapore”:

Faccio pianura
sulle tue camicie,
oceani stendo
di lenzuola,
esploro pieghe,
angoli inaccessibili,
con punte rompighiaccio.

La pesante arte
del ferro a vapore
è un vecchio treno
che corre,
terra d’Islanda,
balena sbuffante,
champagne agitato.

Per un attimo,
per un breve pensiero,
sono altrove.

La poesia infatti non dipende da ciò di cui si parla, ma dal modo in cui si guarda: dal tipo di sguardo utilizzato per vedere. Se vuole raggiungere questo sguardo di rivelazione, l’impianto cognitivo che ordina e nomina il mondo (senza cui la poesia sarebbe delirio afasico o sterile lallazione) deve nutrirsi dell’irrazionale e aprirsi alle sfere del sogno, in una dimensione di veggenza, sospesa tra coscienza vigile e immemore abbandono, dove «è bello sapere / e non sapere». Dal potenziale della conoscenza ordinaria – entro gli schemi logico-razionali – si produce a un certo punto uno “scatto fantastico” che incendia l’immaginazione. Ecco alcuni esempi: «Cassiopea / dalla fulgida luce / mi irradia / e divento / supernova / di antichi misteri»; «taglia, un uccello / origami in cielo»; «anche un foglio di plastica / è mare sciabordante / e il cortile una gola / di correnti». Le basta poco, insomma, per “decollare” dai limiti della realtà.

Sono un pesce rosso
che in una boccia di vetro
con tre bicchieri d’acqua,
vede l’oceano
e di questo scrivo
applicandolo al mondo.

Sa infatti che «niente è più dolce / dell’abbandonarsi al volo», e a tutti i castelli “reali” preferisce «il castello in aria, / architettura invisibile / di una speranza». La poesia aspira irragionevolmente a graffiare il cielo con un sogno; e può farlo grazie all’accessibilità dell’infinito, a cui ci unisce ogni punto del finito quando apre il suo “varco”. «Terra di cielo / cielo di terra»: la realtà è una clessidra rovesciabile che mescola le proporzioni e i piani prospettici, dipende dal punto di vista. La dimensione in cui siamo racchiusi è «poco più, / poco meno / di un eterno»: laggiù, in fondo alla struttura delle forze, riposa vigile e saldo «l’equilibrio dell’acqua / nuda, incauta, inestimabile». Ecco l’aseità dell’essere in sé preso e “centrato”, intorno al proprio nucleo, catafratto dentro l’innocenza del proprio fondamento: le arance «chiuse nella polpa», il mare «letto di sé», il cielo che «non ha colpa delle nuvole», la pietra che è «così com’è, / essenzialmente», e il «peso di me in me»… Questa innocenza cosmica non esclude la coscienza del male che, spesso banalmente, è mescolato all’essere, e soprattutto alla percezione che, esistendo, ne ha l’uomo. Ecco la congiura del nulla, che rende i cocktails della vita «deliziosi e amari» fino a sentirsi dentro il famigerato «vuoto d’amore». Il poeta sa più di tutti che «tutto è ombra», per cui – mentre «passa il cuore sulla terra» – la vita perde i sogni lungo il cammino e resta nuda dinanzi alla propria essenza: ci si chiede allora «qual è il posto delle cose / qual è il posto delle stelle / qual è il mio posto / nel tuo firmamento». Come si ricompone l’universo guardato dal proprio «ipocentro», aperto sì alle vibrazioni delle energie sottili, alle correnti eteriche, alle impalpabili essenze degli oggetti, ma altresì condizionato dalla prigione fisica del corpo? La poetessa montalcinese elabora l’epica quotidiana del suo “sublime” costeggiando i bordi dell’Oltre. Elegge la sua «casa» sullo «scoglio delle sirene» dove «si allarga il cuore / alle tempeste»: da lì in poi esplora le profonde, sconosciute, «nuove dimensioni» dove passano figure di vuoto nel vuoto («corre il ricamo ambrato / nel cielo di nessuno»), dove la poesia focalizza la sua quintessenza alata «acchiappasogni e soffiafantasmi» («Spiraleggia / farfallina delle mie parole») e dove trova modo di incunearsi anche, con improbabile riverbero di fondatezza, l’ipotesi scientifica di una “teoria del tutto”, attualmente giocata fra meccanica quantistica e relatività generale, subito ricondotta – con gioco ironico – dalle vertigini atomiche alla più rassicurante misura del quotidiano:

Prima
l’universo dei mari verticali,
le foreste,
dei nastri di vento,
rotoli di sacchetti prendiverdure,
dei tuffi al cuore,
crateri fumosi di spari di pistola,
delle clessidre,
tempo – cambiamento.
Poi
le misteriose stringhe,
chissà dove sono.

E io? Io dove sono?
meglio le superstringhe
delle mie scarpe da ginnastica,
oltre il nulla, in corsa.

La poesia nasce da questo gioco alchemico per cui d’improvviso anche la realtà più semplici e ordinarie vengono accese da un «soffio vivo» e magicamente si trasformano in qualcosa di più grande e di più alto, rivelando l’inaspettata dimensione che racchiudevano (come il cuore stesso di chi guarda):

Guarda,
il cielo si specchia
nel bicchiere colmo
e diventa mare
per azzurra metamorfosi.
Ed è mistero
come un immenso entri nel finito.
Così succede al cuore
che contiene tutto.

Può tuttavia accadere, altrettanto misteriosamente, che la giostra fantastica si fermi e che la luce magica si spenga in un istante:

Non resta che un cerchio
dov’era una sfera.
Non resta che uno spaventapasseri
dov’era la bellezza.

Da un lato la poetessa obbedisce al richiamo di una pulsione fusionale, che la fa diventare “noi” e coincidere col mondo («Mi copro di questo mare erboso / diventando aratro / di fertili zolle / io stessa seme di seme. Non io, ma noi»); dall’altro sembra dare udienza a un proposito distintivo e classificatorio, che la porta a riconoscere l’unicità irripetibile di ogni cosa esistente («Come sono diverse / quelle due margherite / dello stesso prato! (…) Non ci sono due cose uguali / nel mondo, / neppure due raggi di sole, / (…) Neppure io e me stessa / ci somigliamo tanto»). Nel primo caso prevale il sentimento empatico di apertura, viatico di un abbandono confidente che può raggiungere lo stadio smemorato dell’oblio; nel secondo caso prevale la misura razionale che lucidamente divide, distingue, seleziona. Ma la vita è potente e irresistibile, invade ogni cosa e prevale su qualunque resistenza:

Mi cresce dentro l’erba
come un’onda.

E ancora:

Tutto va per la sua strada
senza ch’io possa fermarlo
o capirlo, a volte,
come la solitudine
dell’ultima foglia
che trema sul ramo.

Il poeta apre il suo spirito al mistero del mondo, che lo fa assorto nel silenzio della com-prensione, un mix chiaroveggente di percezione sottile e auscultazione profonda: «Le mie vibrisse / in grembo / cuspidi / di un delta / che il mare / sottrae». Il castello di sabbia non resiste all’imperio dell’onda: l’infinità possente della vita cancella e riassorbe l’opera dell’uomo, per quanti confini tracci o recinti provi ad innalzare. Tutto evolve continuamente, tutto scorre e svanisce: qualcosa resta, certo, ma «anche quello che resta / se ne va / come la neve». Ecco infatti la bolla di sapone, l’emblema assoluto dell’evanescenza:

Gonfia di bellezza soffiata,
di fiato stupito,
muore di ciò che tocca,
anche di uno sguardo.

E di lei morta
una manciata di lacrime
resta, appesa alla cannuccia.

Nascita senza spiegazione,
beve armonia infranta
che non arriva al cielo.

La legge cosmica della dissolvenza, associata all’irreversibilità del divenire («E non si torna indietro, / ogni fiore è stato colto, / ogni bacio è volato via»), rende la vita una «favolamara» votata al nulla. Come regolarsi? Qui entra in gioco la magia salvifica della donna, che Tiziana Marini dipinge un po’ fata e un po’ strega: si versa un «bicchiere di luna» e «guarda / prende la mira, / con un occhio solo / conta i granelli di sabbia / e abbraccia il mondo / nel giro della sua pupilla» mentre l’occhio chiuso «invece sogna». La donna «che guarda, / un poco sogna», dacché incarna e rappresenta l’osmosi equilibrata degli emisferi cerebrali in dialogo continuo, l’accordo intensamente umano che intesse i versanti razionali e irrazionali della vita, accogliendoli nella ricchezza della loro diversità. La donna si configura come regina delle trasformazioni: diventa ciò che vede («apro la finestra / e inizio a trasformarmi in cielo») perché sa – forse meglio dell’uomo, certamente in modo più gentile e fruttuoso – sviluppare dall’interno, nella globalità olistica di una sfera ideale, i raggi delle forze creative assegnateci (ovvero «la rosa dei venti vitruviana») per plasmare la nostra evoluzione ed improntare il mondo. La poesia, allora, diventa “cronaca” di una rivoluzione dello sguardo (vedere tutto l’esistente in simultaneità stereoscopica, attraverso il «girogioco / di uno specchio») e della nostra coscienza autoriflessa: risplende «l’eco negli occhi» di chi guarda «il suo sguardo / che ritorna e lo veste / di tutte le cose», e così impara a guardare il mondo «senza occhi» esplorando le «curve del silenzio», i «cerchi lontani», i «misteriosi percorsi del cielo» che «entra ovunque». L’ascesa può completarsi («piuma a piuma nel sereno») fino al punto in cui «la curva dell’anima / (…) diventa spazio bianco».

Da un lato la poetessa guarda alle cose sub specie aenigmitatis, trascendendo l’effimero dei fenomeni e la traiettoria casuale degli incontri, alla ricerca dei numeri primi che trapelano in fondo alla visione atomica e come “radiografica” del mondo (qui si incardina la nostalgia della condizione prenatale: la luce madre – «La prima luce / mi rubò al buio / e staccata dallo stelo / piansi», come a dire «nacqui» – per cui «La mia stanza proibita / ha onde di liquido amniotico» e la spinta metafisica a rinascere vorrebbe abbracciare la dolcezza di quel mare caldo, dove nuotare per sempre all’infinito); dall’altro viene attratta dalla tentazione di accettare il rischio della trasformazione, essere cioè l’«attimo / che precede / il cambiamento» e il cielo che «scorre / dietro la nuvola ferma / e traghetta l’attimo / al suo inizio», laddove gira il cerchio che racchiude l’infinito, «d’inizio e fine sconosciuti». Tra la pulsione regressiva e nostalgica della perduta eternità, e quella progressiva e fabbrile di percorrere la linea sottile che divide l’essere dal divenire («la fiamma e lo stoppino, / il destino / dal suo nome, / ciò che ho / da ciò che avrei voluto»), prevale infine la ricerca di una naturalità – ovvero naturalezza organica – capace di produrre equilibrio, agevolando e assecondando «il ritmo giusto del pensiero». Si tratta senza dubbio di un equilibrio dinamico, difficile, fragile («misura d’armonia / breve gioia, paura») come quello che porta alla «costruzione di un sorriso»:

passa per la pioggia,
è in un angolo del balcone,
nella macchia di sole,
tra il geranio e la rosa
che più non è fiorita.

È un raggio, una scalfittura lieve
alito di farfalla silenziosa…
segreto è il suo destino breve
che io nutro a briciole di pane.

Ed è in grado di realizzare questo equilibrio per la terrestrità del suo baricentro psicofisico e il suo sano attaccamento alle radici, che la pongono in una condizione naturale di mediatrice delle energie tra i livelli cosmici della materia. La donna semina «baci sulla terra / che tutta le appartiene» poiché madre e consorte di maternità. E infatti Tiziana Marini scrive:

Mi sdraio sulla terra
a riposare,
la schiena sul cuore
di mia madre.

La poetessa preferisce l’orto al giardino, perché«l’orto / è il luogo / dove tutto nasce, / cresce, / splende. / Non il giardino, / l’orto. / Te lo dice il nome». La poesia è quella dimensione dello spirito che ci fa stare «con le ciliegie alle orecchie» desiderando correre «lontano / a respirare / e del nostro respiro / piegare l’erba». La naturalità terragna, che rende la donna un essere più empatico e sintonico dell’uomo, consuona funzionalmente alla sua paziente capacità di costruire il bene senza stancarsi, per cui anche una semplice casalinga può raggiungere una sua forma di immortalità «in questo distribuire / nutrire e armonizzare» con cura e precisione i dettagli “amorosi” della tavola:

Dispongo in microsistema solare,
distanza,
uguaglianza,
e giustizia,
apparecchio l’amore.

Quella di Tiziana Marini è insomma una poesia positiva e costruttiva, mai banalmente ottimistica, che sgorga dall’invito a trovare la «vetta» al centro della propria «conca», cioè a rovesciare creativamente i problemi in risorse e punti di forza, e che implica anzitutto la capacità di perdonarsi i difetti, gli errori, le infinite imperfezioni («Ego me absolvo, penso, / in nomine matris»). La donna sa cercare e trovare il bene in ogni cosa, arcobaleni nelle tempeste, scintille nella tenebra più fitta: anche il sole e l’infinito nei desolati «giardini d’inverno». La confidente positività le permette di benedire il chiarore «gemmante» dell’alba, di percepire un brivido perché «ancora e ancora / è la bella stagione», di riconoscere la gioia e «immobile» di legarsi ad essa, di apprezzare che «nonostante tutto, / nonostante niente, / io respiro / tra due specchi, infinita», di concepire «pensieri caldi» che «germogliano / e fioriscono /zampillanti chicchi / di felicità». Può dichiararsi così «cautamente felice», cioè «felice sì, ma poco a poco» perché «una cascata di gioia addosso» provocherebbe un «attimo d’insopportabile / delusione». Ed è una felicità credibile nella misura in cui appunto non elude «spigoli / di dolore»: Tiziana Marini è cosciente della luce, ma sa pure che «tutte le cose hanno un’ombra». E quest’ombra, nonostante il male che alberga nell’uomo, e le guerre, gli orrori, gli abusi, la violenza, l’egoismo, le quotidiane piccinerie di cui si macchia l’antica belva intelligente, non riesce a raggiungere la statura della nostra immensità: il mare «non basta tutto intero» a riempirci la mano, tanto è grande e vivo e palpabile il miracolo in cui siamo immersi e di cui, se vogliamo, possiamo renderci artefici e protagonisti.

Marco Onofrio

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.