Petrarca, Cola di Rienzo e il sogno d’Italia, di Valter Lori

cola
Federico Faruffini, “Cola di Rienzo contempla le rovine di Roma”, 1855

Francesco Petrarca ricordava d’aver visto Dante da bambino quando, a otto anni, il padre lo aveva condotto a Pisa incontro ad Arrigo VII, allora speranza comune di una parte politica. E Ser Petracco, il padre, condivideva con Dante e con molti altri il desiderio che quel personaggio che scendeva in Italia fosse il pacificatore tanto atteso. Ma ancora non sapevano che la morte stava per ghermirlo di lì a pochi giorni, in quell’agosto del 1313, e con lui, il sogno di una nuova realtà coltivato da tanti. Ed era un sogno ricorrente in alcune menti elette alle quali pesava il macigno delle lotte tra le parti e delle sofferenze del popolo. Sin da giovane Petrarca provava attrazione per la cultura classica, viaggiava, ma si tratteneva spesso ad Avignone, la città dove si era stabilita la corte papale,e dove il padre aveva un impiego. Dopo la morte del padre, vi prese gli ordini minori, che non impedivano di svolgere la vita civile e personale ma permettevano un certo grado di benefici ecclesiastici. Conobbe ed ebbe la stima del cardinale Giovanni Colonna e nel 1343 vi incontrò Cola di Rienzo, il quale vi era arrivato sostenendo di esser stato incaricato dal popolo romano a recare al papa una lettera nella quale lo si esortava a non dimenticare Roma e a non abbandonarla. A venti anni Cola era un personaggio intraprendente, entusiasta, facilmente esaltabile, già abbastanza conosciuto per la sua cultura, anche se superficiale, e per la sua eloquenza, che era ammirata. Aveva seguito una rivoluzione popolare avvenuta poco prima. Nemico degli aristocratici che avevano ucciso uno dei suoi fratelli, attendeva il momento di liberare la città dalle frequenti e sanguinose lotte tra le famiglie nobiliari. Era nato a Roma nel 1314 da una famiglia povera. Dopo la morte della madre era andato a lavorare nei campi e poi, alla morte del padre, era tornato a Roma, dove cominciò a formarsi leggendo le opere di Livio, Seneca, Cicerone e degli antichi poeti (a quei tempi il latino ancora era parlato da molti); visitava i monumenti e si esaltava per il mondo scomparso. Presso il popolo andava acquistando un certo prestigio e meditava progetti di una segreta cospirazione libertaria. Qualche volta i cospiratori si riunivano segretamente sull’Aventino, l’ultimo rifugio di Caio Gracco, che consideravano un simbolo del riscatto popolare. Dunque ad Avignone l’umanista Petrarca conobbe il poco più giovane aspirante tribuno Cola di Rienzo, e fu una esaltazione reciproca: l’uno nell’amore della classicità, l’altro nel ricordo delle glorie dell’antica Roma e nel confronto con le penose condizioni di coloro che gli spiriti eletti consideravano discendenti dei Cesari, uniti ambedue sulla difesa dei valori umani e sulla dignità dell’uomo.

In quella aspirazione libertaria il trasporto di Cola fu certamente eccessivo e l’eloquenza con la quale descrisse l’arroganza dei patrizi gli procurò l’astio del cardinale Giovanni Colonna. Questi prese a difendere i suoi congiunti e a influire sul pontefice, che cominciò a diradare gli incontri con il tribuno romano. Petrarca, da sempre amico dei Colonna e recente amico di Cola, si adoperò per fargli riottenere la stima del papa. Questi era il francese Pier Roger de Beaufort, che era stato eletto nel 1342 con il nome di Clemente VI: un signore liberale, prodigo, amante delle arti e delle scienze, al quale Stefano Colonna sperò, conferendogli la carica di senatore, di indurlo a venire a Roma, ma null’altro ottenne che la semplice nomina di sé stesso e di Bertoldo Orsini a suoi rappresentanti in Senato. Egli non era un santo ed era molto sensibile ai fatti quotidiani della vita, come dimostra la vicenda di Giovanna d’Angiò, regina di Sicilia. Discendente dei conti di Provenza, nipote ed erede di Roberto d’Angiò, e quindi regina di Napoli, Giovanna d’Angiò aveva sposato Andrea, fratello del re di Ungheria. Nel settembre 1345 il giovane sposo era stato ucciso, si disse con il compiacimento della moglie e dell’amante di lei, Luigi di Taranto. Il fratello dell’ucciso, re d’Ungheria, mosse contro Napoli per una spedizione vendicativa. La regina fuggì ad Avignone, dove venne scagionata da Clemente VI dall’accusa di uxoricidio, sposò l’amante e, dopo il ritiro delle truppe ungheresi, tornò a Napoli. Rimasta vedova una seconda volta, sposò in successive nozze Giacomo III d’Aragona, ma anche questi morì prematuramente ed allora la regina disinvoltamente si unì con Ottone di Brunswick. Al termine della lunga vicenda venne spodestata e uccisa dal nipote Carlo di Durazzo, il quale era stato designato erede dalla zia che, malgrado i vari matrimoni, non aveva avuto prole. Va detto a questo punto che nel 1348 la regina Giovanna aveva ceduto al papa la città di Avignone, che le era pervenuta dai conti di Provenza, ed era facile pensare che fosse un compenso per il decadere dell’accusa di uxoricidio, anche se venne pagato un importo di ottomila fiorini d’oro. Tornato a Roma nel 1344, Cola proclamò il felice esito della sua missione, ma i nuovi senatori Matteo Orsini e Paolo Conti si diedero a contrastarlo, istituendo processi contro di lui. Tuttavia il pontefice in quel momento mostrava di favorire la democrazia romana.

A Roma il patriziato continuava a mantenere il diritto di eleggere i senatori ma nel governo della città coesistevano i “boni viri” delle corporazioni e i due senatori nominati dalla nobiltà, anche se il loro potere era indebolito dalla rivalità tra le famiglie patrizie. Le condizioni di vita in città e le tribolazioni del popolo erano intollerabili, non esistevano freni alle sopraffazioni e alle ingiustizie, i pellegrini venivano uccisi o derubati. Nel maggio 1347 reggevano il senato Roberto Orsini e Pietro figlio di Agapito Colonna. Le milizie romane, con Stefano Colonna, si trovavano a Corneto per rifornirsi di grano. Era il momento giusto: Cola, con l’approvazione di Raimondo, vescovo di Orvieto, passò all’azione. Scortato dal vicario pontificio salì al Campidoglio e parlò al popolo dichiarando di esser pronto a sacrificare la propria vita per amore del papa e per il bene del popolo. Lesse tra il tripudio della gente le nuove leggi: i processi dovevano esser definiti in quindici giorni, i beni dei proscritti dovevano esser incamerati del fisco, nessun aristocratico poteva costruire fortificazioni, i baroni sarebbero stati responsabili delle strade e in ogni rione doveva esser installato un granaio. Questo ed altro venne accolto con grandi applausi, Cola ricevette la signoria assoluta della città e poteri illimitati. Chiese ed ottenne, per assicurarsi il riconoscimento del papa, di avere come collega un legato pontificio e venne nominato tribuno. La repubblica di Roma si stava liberando dalla tirannide e dal disordine. Stefano Colonna fuggì a Palestrina mentre Cola invitava gli altri Colonna, i Savelli, gli Annibaldi e i Conti affinché giurassero fedeltà alle leggi della repubblica. Esaltato dal successo e nel sogno di estendere la rivoluzione, Cola concepì l’idea che essa potesse costituire un principio valido per tutte le città, ed esortò il popolo ad un rapporto di fratellanza nazionale. La liberazione della Città Eterna doveva essere il primo esempio per il resto d’Italia: Cola di Rienzo si presentava alla sua patria con nobili idee nazionali. Inviò lettere all’imperatore Ludovico e al re di Francia annunciando che Roma, da lui liberata, aveva trovato pace e giustizia e chiedendo di inviare due sindaci e un giudice per un parlamento di tutta la provincia romana. Scrisse ai comuni d’Italia esortandoli di unirsi a lui per rovesciare i tiranni e stringersi in un rapporto di fratellanza, per fare dell’Italia una confederazione con Roma capitale. Intanto aboliva la carica senatoriale e offriva al papa che la propria durasse soltanto tre mesi; ma i Romani giurarono di voler morire piuttosto che perdere il suo governo. Coniò monete, istituì una guardia del corpo e cominciò a punire i reati.

Una ordinata amministrazione accresceva i proventi della camera urbana, la sua fama si diffondeva e il papa vedeva in lui l’eletto del Signore; il Campidoglio sembrava diventato il centro politico d’Italia e si cominciava a sperare nella realizzazione delle idee auspicate e intraviste da Dante prima in Arrigo VII di Lussemburgo e poi nel successore Ludovico il Bavaro, col suo fallito tentativo di negare la legittimità del potere temporale della Chiesa. Petrarca, che aveva preso il posto di Dante come rappresentante della cultura nazionale, offrì la migliore testimonianza del prestigio esercitato da Cola: “Quando sorse questo romano, solo e di modestissima origine, l’Italia si levò e la gloria del nome di Roma giunse agli estremi limiti del mondo”. Egli infatti condivideva con Bruto e con Scipione i principi espressi da Dante nel De Monarchia. Petrarca lo salutò come l’uomo che da lungo tempo aveva auspicato, e da Avignone rivolse calorose felicitazioni a Cola e al popolo romano. Perugia, Todi, Narni, Corneto inviarono uomini per la milizia romana, che contò mille cavalieri e seimila fanti. A capo di questo esercito era Nicola Orsini di Castel Sant’Angelo. Lo stesso tiranno della Tuscia si prostrò ai suoi piedi e Cola estese la sua autorità su tutta la Tuscia romana. In seguito parecchi castelli romani resero omaggio al tribuno, come Piglio, Cere, Vitorchiano, Civitavecchia, Porto, Gaeta, Sora, e tutti i comuni della Sabina chiesero la sua protezione. Il 2 agosto egli celebrò in Campidoglio l’unità d’Italia e la fratellanza delle città, e i comuni accettarono, avendo avuto la garanzia che i diritti delle loro repubbliche non sarebbero stati toccati.

Ma il tribuno sapeva che la nobiltà gli era contraria e che la corte pontificia faceva resistenza. E a questo punto fece il suo primo e più grave errore. Volle impadronirsi dei più eminenti ottimati e li invitò a un banchetto, al termine del quale fece arrestare cinque Orsini e due Colonna, condannandoli alla pena capitale. Dopo qualche ora, ridendo, disse che erano stati graziati e offrì un banchetto di riconciliazione. Mortificati e avviliti, tornarono ai loro palazzi rosi dal desiderio di vendetta per quel tiro tremendo. Il papa si sdegnò con Cola per aver messo alla gogna i propri amici e lo stesso Petrarca non riuscì a spiegarsi l’errore del tribuno il quale, senza essersi macchiato di sangue, si era procurato odio e disprezzo da parte della nobiltà mentre la corte pontificia cominciava a temere uno scisma. Infatti con la dichiarazione che tutti gli italiani erano liberi cittadini di Roma e con l’invito a tutto il paese di costituirsi in un impero nazionale romano, Cola aveva stabilito che un nuovo imperatore sarebbe stato eletto dopo la Pentecoste del 1348 e che sarebbe stato un italiano, e ciò per stabilire l’unità d’Italia. Da questo punto di vista la figura di Cola era gloriosa poiché esprimeva un’idea nazionale in un’epoca, come la sua, di estremi frazionamenti. Frattanto il papa aveva deciso di procedere contro il temerario demagogo mentre i cardinali delle famiglie Orsini e Colonna chiedevano di processare Cola. I baroni, desiderosi di vendetta, corsero alle armi, fecero incursioni alle porte di Roma e occuparono Nepi. Cola mosse contro Marino con ventimila fanti e ottocento cavalieri ma non riuscì ad espugnare il castello. Stefano Colonna allora tentò il colpo contro Roma, ma nella guerra che ne seguì i Colonna e gli Orsini furono sconfitti. Il Petrarca ne fu costernato ma rimase fedele all’idea che Roma e l’Italia gli erano ancora più cari dei Colonna. Cola indugiò in spettacoli e trionfi e ciò lo rese odioso alla gente, i cavalieri rifiutarono di servirlo e lasciarono la sua corte: l’uomo del popolo si stava trasformando in un odioso tiranno. Il Petrarca gli scrisse messaggi dolenti ma Cola tiranneggiava e spremeva denaro. Quando si rese conto del suo decadere tentò di riconciliasi con il papa, ma ormai il suo prestigio era crollato. Allora depose le insegne e si chiuse in Castel Sant’Angelo. Soltanto dopo tre giorni gli aristocratici si domandarono e capirono ciò che era successo. Ristabilirono i vecchi ordinamenti, nominarono i nuovi senatori Bertoldo Orsini e Luca Savelli, quest’ultimo rappresentante dei Colonna. Ma l’improvvisa restaurazione non riuscì a pacificare la città, dove infuriavano passioni democratiche e dove i sostenitori di Cola erano ancora numerosi. Quando Petrarca rivide la città nel 1350 scrisse che i romani erano ancora ebbri di quelle libertà che cominciavano a rimpiangere. L’origine storica della feudalità, diceva il poeta, era un istituto
germanico trapiantato sul suolo romano. L’Italia, continuava, è un paese democratico nel quale il contrasto tra la borghesia e la nobiltà è appena sensibile. Intanto nel dicembre 1352 si spegneva ad Avignone Clemente VI. Gli succedeva Innocenzo VI, giusto e severo, mentre Roma continuava ad essere funestata da disordini e violenze, i prezzi salivano e il popolo accusava di avidità i senatori. Si cominciava a rimpiangere il tribuno.

Ma dov’era Cola? Si era rifugiato nella solitudine della Maiella in un eremitaggio dei fraticelli, come Celestino V. Poi, invece, nel luglio 1350 si presentò a Praga al cospetto di Carlo IV, al quale Petrarca si era già rivolto nella speranza di un suo intervento a favore dell’idea ghibellina. Ma il papa aveva prevenuto l’imperatore che Cola era colpevole di eresia e che doveva essergli consegnato. Ad Avignone avvenne l’imprevisto: la difesa di Cola fu tale che il papa lo liberò, non solo, ma lo affidò al cardinal Albornoz affinché lo accompagnasse a Roma preparando un possibile ritorno del pontefice nella sede romana. Cola, nelle sue mutate vesti di guelfo, era stato nominato suo legato a Roma. A Roma Cola riorganizzò il suo governo, ma non era più il tribuno di un tempo. Una nuova sete di dominio e di ricchezza lo aveva assalito, commise delitti contro personaggi per impadronirsi dei loro beni. Da quel momento divenne un vero tiranno, odiato da tutti. Il demone dell’ambizione e il desiderio della ricchezza si erano impadroniti di lui. Istituì una imposta sulle derrate, fece incarcerare cittadini che poi liberava dietro riscatti. L’8 ottobre il tribuno fu svegliato da un tumulto. Comprese che gli restava soltanto la fuga. Fuggì travestito da pastore ma, riconosciuto, cadde trafitto dai colpi di pugnale del suo popolo deluso. Ed è ancora là, sulla cordonata del Campidoglio, chiuso nel suo tabarro e incappucciato mentre la “sua” strada scorre, elegante e commerciale, oltre la Piazza del Risorgimento. Invece solo una modesta via, in prossimità della popolare Piazza Vittorio, ricorda il poeta umanista. 

Valter Lori

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