UNGARETTI UOMO DI PACE, di Noemi Paolini Giachery

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Ungaretti uomo di pace: una tesi non certo difficile da dimostrare. In una delle sue tarde riletture della propria poesia e del proprio destino di uomo lo stesso poeta si è presentato come un “uomo della pace”. Ma la testimonianza più diretta e più appariscente, quella a cui subito va il nostro pensiero, è naturalmente lo straordinario documento poetico e umano costituito dalla prima raccolta di poesie nata in trincea, Il Porto Sepolto. L’esile libretto fin dal suo primo apparire rivelò la sua decisa contrapposizione al trionfalistico modello dannunziano proprio nel suo nodale incontro con il tema della guerra, incontro che dal piano della vita si riflette sul piano del linguaggio poetico. La guerra non è qui la grande occasione per un’avventura eccezionale dell’eroe, una delle vie per sublimarsi attraverso una “vita inimitabile”, ma è la tragica esperienza collettiva che consente al poeta – sono parole dello stesso Ungaretti – «la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità con gli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione». «Compatire, compatire, compatire [scriveva già il poeta in guerra]. A questa principale bontà iniziamoci, ritroviamoci uomini intensamente» (e qui il verbo «compatire» ritrova la sua valenza etimologica). L’odio è dunque bandito da questa esperienza: «Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico né per nessuno». E – aggiungo – non c’è posto per l’esaltazione eroica dell’individuo emergente. «M’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante mi sarebbe sembrata un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più umile, avevo inteso dare un segno di completa dedizione». Sappiamo che Ungaretti volle fare la guerra da soldato semplice. A un certo momento fu obbligato a partecipare a un corso per allievi ufficiali ma si ritirò molto presto. In una pausa di quel corso la sua immagine poco marziale fu fissata in una fotografia che è una delle più note. In essa ritroviamo quel «fare trasandato e disattento» di cui parlava Ettore Serra ricordando il suo primo fatale incontro con il soldato Ungaretti, quel soldato che anche a Soffici apparve come uno «dei più scalcinati». Dicevo che la stessa novità formale dell’Allegria è da ricondurre a quella disposizione morale così nobilmente umile, così lontana dallo spirito guerriero del poeta-soldato D’Annunzio. «La guerra [dirà più tardi Ungaretti] improvvisamente mi rivela il linguaggio. […] Poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento: quest’uomo solo in mezzo agli altri uomini soli, un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti questi uomini ciascuno singolarmente, la propria fragilità. E che sentivano, nello stesso tempo, nascere nel loro cuore qualche cosa che era molto più importante della guerra, che sentivano nascere affetto, amore, l’uno per l’altro». Queste parole confermano l’intento del poeta di conferire una straordinaria pregnanza a quel suo linguaggio proprio attraverso la sua nudità, quella esemplare nudità che non ha certo niente di «trasandato» né di «scalcinato» − per rifarci alle espressioni sopra evocate – ma al contrario realizza una sorta di sublimazione, di sacrale riscatto, di miracolosa e conquistata armonia simile a quella cercata dal soldato che, in un momento di grazia, si spoglia dei «suoi panni sudici di guerra» per riposare «come una reliquia» nelle acque dell’Isonzo.

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Ci si può chiedere a questo punto perché mai Ungaretti avesse voluto arruolarsi volontario. «Non l’amavo neanche allora ma pareva che la guerra si imponesse per eliminare finalmente la guerra» dice Ungaretti sempre nelle “Note” al Porto Sepolto, e aggiunge, a posteriori: «Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono in fila dietro le bubbole». Sempre, del resto, Ungaretti ripeterà che «le guerre non risolvono mai nulla». Ma in lettere scritte dal fronte agli amici era comparsa una motivazione diversa, anche se ben conciliabile con l’altra. In una lettera del ’18 all’amico Thuile si legge: «Ma non posso rassegnarmi a non sapere ancora luminosa la civiltà che ho amato tanti anni, e per questo sono lieto di ogni sacrifizio che mi si chiede, per questo, perché non muoia il senso libero della mia anima spiegata al sole». Questa idea di civiltà trascende i limiti nazionalistici prima e dopo fissati in altre aree culturali in certo senso più anguste. Per la morte di Apollinaire, sempre nel ’18, così elogia l’amico perduto scrivendo a Giuseppe Raimondi: «Amava l’Italia, la Francia, la Polonia, ma se amava tanta civiltà, la civiltà, non poteva essere, non era, un nazionalista». Certo ci è difficile ormai accettare, come lo era a quel tempo per uomini di cultura come Croce, una idea di civiltà sovranazionale, identificata con la civiltà tout court, e al tempo stesso intesa in contrapposizione polemica con la tradizione culturale germanica. Ma un’idea del genere era quasi inevitabile per un giovane come Ungaretti che si era aperto alla cultura, a una cultura dai vastissimi orizzonti ma tradizionalmente antitedesca, in quella città-faro che era la Parigi degli inizi del secolo. Tanto meno evitabile, quell’idea, in occasione della guerra che poneva in primo piano l’aspetto disumanamente imperialistico e militaristico di certa cultura germanica. In ogni modo c’era posto in quell’internazionalismo ungarettiano – quasi fatalmente lacunoso – per la valorizzazione e l’esaltazione dell’apporto specifico del popolo italiano alla comune civiltà («popolo» e non «nazione» è la parola che ricorre anche nella poesia). È sempre del ’18 una lettera a Giovanni Papini in cui leggiamo: «Perché ostinarsi a ignorare che la grandezza di un popolo è la sua civiltà, e la civiltà di un popolo è rappresentata nel grado più essenziale dai suoi artisti; e oggi in Italia fioriscono gli artisti più grandi di questo momento e tali da star di petto coi grandissimi d’ogni momento».

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Vale forse la pena di notare – marginalmente e senza cercarne qui le ragioni – che il tema della civiltà come valore da preservare, che costituirà centro tematico rilevante del Dolore, in questa prima fase compare con insistenza solo nelle prose epistolari e non si coglie invece nell’Allegria dove l’uomo, come abbiamo visto, sembra confrontarsi con una natura senza storia («ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto»). Un altro punto mi pare inoltre significativo, anche per avviare il discorso – dopo aver fatto parlare quasi solo il poeta – a una conclusione forse un po’ personale ma che, proprio per questo, mi sta a cuore. Questo è il punto. Nell’ultima testimonianza citata la civiltà è quasi identificata con l’arte. Non è l’idea estetizzante dell’arte come sostituto della vita e dei suoi valori. Più vicina è, se mai, la concezione romantica che carica la poesia, l’arte, di massima responsabilità in quanto sintesi suprema degli umani valori. «Un poeta [dice sempre Ungaretti] è impegnato a fare ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere e distaccare». Impegno, dunque, a condizione di liberare la parola da troppo precisa referenza socio-politica: la poesia sembra consentire all’uomo proprio la libertà di guardare oltre ogni fenomenologia coartante, anche oltre i limiti di una specifica condizione storica. Esiste infatti nell’uomo – qui parla di nuovo Ungaretti – la «possibilità di portare, dalle proprie naturali su altre dimensioni, la realtà scoprendone così la poesia e la verità». Questo approdo non è, come potrebbe sembrare, estraneo al tema.

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Torniamo allo strano soldato dall’aria disattenta – ma in realtà attento altrove – che, in una lettera all’amico Marone, afferma di aver sopportato con disinvoltura due anni di guerra in zona di operazioni ma di essere impaziente «sulle cose dell’arte» (l’occasione era un ritardo nella spedizione delle bozze di stampa). Si tratta, in parole povere, di un patito della poesia ma, in parole meno povere, di un uomo che si porta dentro non un bisogno di evasione ma, al contrario, una insopprimibile sete di verità sostanziale e che tale verità pensa di dover cercare oltre l’irrilevanza di certi esterni accadimenti; che solo in un momento in cui si sente «insterilito dentro» conclude: «se sono così malconcio anche nell’essenziale, varrebbe la pena d’avere un coraggio di andarsene finalmente in silenzio». Queste indicazioni ci mettono in guardia dal trattare anche il tema della pace, in rapporto a Ungaretti, restando nell’ambito di una referenza contingente sia pur seria e tragica quale può essere la temperie della prima guerra mondiale o anche della seconda, così presente nel Dolore, realisticamente considerate. Ci sembra che il senso essenziale di questo valore, come di ogni altro valore per il nostro poeta, vada cercato oltre. La pace per lui è sì anche il principio di misura, di armonia, di amore, che dovrebbe informare tutti i rapporti umani, che dovrebbe affermarsi nella fratellanza dei popoli e dei singoli uomini, come in quel rapporto d’elezione che è l’amicizia, che tanto si addice, e Ungaretti lo ha felicemente sperimentato, agli artisti, se è vero che «l’arte si svolge fuori di tutte le fobie; in un’atmosfera di più nobile comprensione» (come scrive all’amico Carrà). Ma la pace è soprattutto l’assoluta “misura”, la totale “armonia”, insieme verità e miraggio, di cui al poeta è dato cogliere qualche segno con quei suoi occhi che – dice Ungaretti in un’altra lettera a Soffici – «come quelli della gente di deserto» sanno «allontanarsi nelle palpebre “a mandarino” per rispecchiarsi nell’anima». È infatti in interiore homine che si manifesta la verità ignota, attraverso qualche «luce felice», attraverso quei momenti di illuminazione che sono poi i momenti di vita più vera e che si identificano con la poesia. Può interessarci un’esemplificazione che troviamo tra le testimonianze del poeta sui suoi momenti di verità: «Potrei dire che nella mia vita drammatica (…) qualche volta la verità mi ha illuminato senza contrasti. Fu quando, nella prima guerra mondiale, negli umili miei canti sentivo la parola “fratelli” nascere nella notte. Sentivo:

FRATELLI

Parola tremante
Nella notte
Foglia appena nata.

E più tardi, nel 1931, più energica la medesima ispirazione mi piegava a pregare

Da ciò che dura a ciò che passa
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto».

Questa ardita associazione ci conferma che il patto di fratellanza tra gli uomini, per il nostro poeta, ha bisogno di sostenersi, con metafisica dilatazione, sul «patto» tra «ciò che dura e ciò che passa». E conferma anche che per lui la preghiera, che sembrerebbe nascere dopo la cosiddetta “conversione” del ’28, è la stessa domanda esistenziale di cui era sostanziata L’Allegria (che non per nulla si conclude con una Preghiera) e che tornerà nel Dolore anche sotto forma di invocazione alla «genitrice mente», concepita come «misura incredibile, pace».

Il roseo improvviso tuo segno
Genitrice mente, risalga
E riprenda a sorprendermi;
Insperata risùscitati,
Misura incredibile, pace.

Noemi Paolini Giachery

(Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana, Vecchiarelli Editore, 1997, pp. 67-71).

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