ELSA MORANTE (da “La Storia”, Einaudi, 1974): Ida violentata dal soldato tedesco

tedeschi

Il soldato risentì come una ingiustizia quel ribrezzo evidente e straordinario della sconosciuta signora. Non era abituato a suscitare ribrezzo nelle donne, e d’altra parte sapeva (a dispetto delle sue piccole delusioni precedenti) di trovarsi in un paese alleato, non nemico. Però, mortificato, invece di desistere si accanì. Quando il gatto di casa, per un suo assurdo malumore, si acquatta nei propri nascondigli, i ragazzini si accaniscono a dargli la caccia. Essa, del resto, non fece nemmeno l’atto di scansarsi. L’unico suo movimento fu di nascondere dentro una delle sporte – quali documenti minacciosi della propria colpa – dei quaderni di scuola che aveva nelle mani. Più che vedere lui, essa, sdoppiandosi, vedeva davanti a lui se stessa: come ormai denudata di ogni travestimento, fino al suo cuore geloso di mezza ebrea. Se avesse potuto vederlo, invero, si sarebbe forse accorta che lui, davanti a lei, stava nell’atteggiamento di un mendicante piuttosto che vi uno sgherro. Con l’aria di recitare, apposta per impietosirla, la parte del pellegrino, aveva posato su una palma la guancia reclinata. E in una preghiera ilare benché proterva, nella sua voce di basso già timbrata ma fresca e nuova, con dentro ancora qualche acidezza della crescita, ripeté due volte: «…schlafen… schlafen…» A lei, che ignorava del tutto la lingua germanica, l’incomprensibile parola, con la sua mimica misteriosa, suonò per una qualche formula gergale d’inchiesta o d’imputazione. E tentò in italiano una risposta indistinta, che si ridusse a una smorfia quasi di lagrime. Ma per il soldato, grazie al vino, la babele terrestre s’era trasformata tutta in un circo. Risolutamente, in uno slancio da bandito cavalleresco, le prese dalle mani i fagotti e le sporte; e in un volo da trapezista la precedette senz’altro su per la scala. A ogni pianerottolo, si arrestava per aspettarla, uguale a un figlio che, rincasando insieme, fa da staffetta impaziente alla madre tarda. E lei lo seguiva, inciampando a ogni passo, come un ladroncello che si trascina dietro ai portatori della sua croce.

Il suo peggiore affanno, in quella salita, era il sospetto che Nino proprio oggi, per un caso raro, si trovasse a casa di dopopranzo. Per la prima volta, da quando era madre, si augurava che il suo piccolo teppista stradaiolo le restasse in giro tutto il giorno e tutta la notte. E si giurava disperatamente, se il tedesco le avesse domandato di suo figlio, di negarne non solo la presenza, ma l’esistenza perfino.

Al sesto pianerottolo, erano arrivati. E siccome lei, coperta d’un sudore ghiacciato, si perdeva nel manovrare la serratura, il tedesco posò in terra le sporte, e prestamente le venne in aiuto, con l’aria di uno che rientra in casa propria. Per la prima volta da quando era madre, essa provò sollievo al trovare che Ninnarieddu non era in casa.

L’interno consisteva in tutto di due camere, cesso e cucina; e presentava, oltre al disordine, la doppia desolazione della povertà e del genere piccolo-borghese. Ma sul giovane soldato l’effetto subitaneo di quell’ambiente fu di rimpianto selvaggio e di malinconia, per causa di certe minime affinità con la sua casa materna in Baviera. La sua voglia di giocare dileguò come il fumo di un bengala; e la sbronza non ancora consumata gli diventò l’amarezza di una febbre in corpo. Caduto in un mutismo totale, incominciò a marciare fra i molti ingombri della stanza con la grinta di un lupo sperso e digiuno che cerca in un covo estraneo qualche materia da sfamarsi.

Agli occhi di Ida, ciò corrispondeva esattamente al suo compito poliziesco. Preparandosi a una perquisizione generale, essa ripensava al foglio con l’albero genealogico di Nino, da lei riposto in un cassetto fra altri documenti importanti; e si domandava se forse quei segni enigmatici non sarebbero indicazioni lampanti per colui. Egli arrestò la sua marcia davanti a un ingrandimento fotografico, che campeggiava al posto d’onore sulla parete, incorniciato come un quadro d’autore di grande importanza. Ritraeva (a grandezza circa metà del naturale) un bulletto sui quindici-sedici anni, avvolto in un sontuoso cappotto di lana di cammello che lui portava come fosse una bandiera. Fra le dita della sua destra si riusciva a scorgere vagamente il bianco di una sigaretta; e il suo piede sinistro poggiava sul parafango di una spider fuoriserie (lasciata per caso là in sosta da qualche proprietario ignoto) col gesto padronale che usano, nelle grandi foreste, i cacciatori di tigri. Sullo sfondo, si intravvedevano i casamenti di una via cittadina, con le loro insegne. Ma per l’ingrandimento eccessivo operato su quello che era stato, all’origine, il volgare prodotto di un fotografo ambulante, l’intera scena risultava piuttosto pallida e sfocata. Il militare, scrutato il quadro nel suo insieme, lo collegò, di sua propria supposizione, col culto familiare dei defunti. E puntando il dito sul soggetto fotografato, domandò a Ida, con la serietà di una indagine:
«Tot?» (morto?)

La domanda, naturalmente, a lei suonò incomprensibile. Però l’unica difesa che oggi il terrore le consigliava era di rispondere sempre no a qualsiasi inchiesta, come gli analfabeti nelle istruttorie. E non sapeva di fornire così, stavolta, contro ogni intenzione, una informazione al nemico. «No! no!» rispose, con la vocina di una bambola, gli occhi sbalorditi e feroci. E di fatto, secondo verità, quella non era il ricordo di un morto, ma una foto recente di suo figlio Ninnuzzu, che lui stesso aveva fatto ingrandire e incorniciare di propria iniziativa. Anzi, lei tuttora, fra liti amare, andava pagando le rate di quel cappotto di cammello che Nino, fino dall’autunno, s’era ordinato abusivamente. Del resto, poi, la casa medesima denunciava senza rimedio, e a voce altissima, quell’inquilino latitante che lei pretendeva di occultare! La stanza, che dall’ingresso il tedesco aveva invaso risolutamente, era una sorta di salottino-studio che poi di notte serviva anche per dormirci, come si capiva da un divanoletto ancora disfatto e in realtà composto, in modo sommario, di una rete senza gambe e di un materasso malandato. Intorno a questo divanoletto somigliante a una cuccia (col guanciale sporco e unto di brillantina messo per traverso, e lenzuola e coperte tutte arruffate e in disordine) giacevano, scaraventati in terra dalla sera prima, una sopracoperta di seta artificiale e certi cuscini duri (che di giorno servivano a travestire il letto); frammezzo ai quali poi si ritrovavano un giornaletto sportivo, una giacchetta di pigiama, celeste, di misura ancora abbastanza piccola; e un calzettino di media misura, bucato e sporco, di un vivace disegno scozzese…

Sulla parete del letto, nel posto delle immagini sacre, erano fissate con puntine diverse fotografie, ritagliate dalle riviste, di dive del cinema in costume da bagno o in abito da sera: delle quali le più formidabili erano contrassegnate con grandi fregi a matita rossa, così perentorii da parere degli squilli d’arrembaggio, o delle proteste di gatto uscito a battere. Sulla medesima parete, ma di lato, e fissata anch’essa con puntine, c’era pure una copia di manifesto, raffigurante un’aquila romana che stringeva le Isole Britanniche fra gli artigli. Su una sedia, c’era un pallone da football! E sul tavolino, fra quinterni di libri scolastici (maltrattati e mortificati orrendamente, da sembrare rimasugli dei topi) si ammucchiavano altri giornaletti sportivi, rotocalchi e fumetti d’avventure; un romanzo del brivido, recante in copertina una signora seminuda, urlante e minacciata da una manona scimmiesca; e un album con figure di pellirosse. Inoltre: un fez d’avanguardista; un fonografo a manovella con qualche disco alla rinfusa; e un meccanismo di struttura complicata e imprecisa, in cui si riconoscevano, fra l’altro, i pezzi di un motorino. A fianco del divano, su una sgangherata poltrona addossata al muro, al di sotto di una veduta a stampa con la scritta Grand Hotel des îles Borromées, c’erano ammucchiati alcuni pezzi o rottami di veicoli, fra i quali spiccavano uno pneumatico sgonfio, un contachilometri e un manubrio. Sul bracciolo della poltrona era posata una maglietta coi colori d’una squadra. E sull’angolo del muro, appoggiato in piedi, c’era un moschetto autentico. Fra un tale campionario parlante, i fantastici movimenti del soldato si convertivano, per Ida, nei movimenti esatti di una macchina fatale, che stampava anche Nino, oltre a lei stessa, nella lista nera degli Ebrei e dei loro ibridi.

I suoi propri equivoci andavano acquistando, col passare dei minuti, un potere allucinante su di lei, riducendola al terrore nativo e ingenuo di prima della ragione. Ferma in piedi, con ancora addosso il cappotto e in testa il suo cappellino a lutto, essa non era più una signora di San Lorenzo; ma un disperato migratore asiatico, di piume marrone e di cappuccio nero, travolto nel suo cespuglio provvisorio da un orrendo diluvio occidentale.

E nel frattempo, i ragionamenti sbronzi del tedesco non concernevano né le razze né le religioni né le nazioni, ma soltanto le età. Era matto di invidia e dentro di sé discuteva tartagliando: «Mannaggia, la for – tu – na è di quelli che non han – no ancora l’età di le – va – e – e possono godersi a casa le loro pro – pro – prietà con – con le madri! e il pallone! e scopare e tut – to quanto – tutto quanto! come se la guerra fosse nella lu – na o nel mondo Mar – te… La di – sgrazia è crescere! la disgrazia è cresce – re!… Ma dove sto? pper – ché sto qua, io?! come mi ci son trovato?…» A questo punto, rammentandosi che non aveva ancora fatto le proprie presentazioni alla sua ospite, con decisione andò a piantarsi di fronte a lei; e senza nemmeno guardarla, con bocca imbronciata le dichiarò: «Mein Name ist Gunther!» Quindi rimase là in una posa scontenta, aspettando, da quella sua presentazione propiziatoria, un effetto che già in anticipo gli era negato. Gli occhioni avversi e attoniti della signora ebbero appena un battito sospettoso a quei suoni tedeschi, per lei senz’alcun senso se non di qualche minaccia sibillina.

Allora il soldato, nello sguardo (che pure gli si incupiva) lasciò passare un colore animato di dolcezza, per il movimento di un affetto inguaribile. E stando là mezzo seduto, come s’era messo, sull’orlo del tavolino ingombro, in una cert’aria di malavoglia (che tradiva una confidenza gelosa) trasse di tasca un cartoncino e lo pose sotto gli occhi di Ida. Essa vi gettò uno sguardo sghembo e raggelato, aspettandosi una tessera di S.S. con la croce a uncino; o forse una foto segnaletica di Ninnuzzu Mancuso, con la stella gialla. Ma si trattava invece di un gruppetto fotografico famigliare, nel quale essa intravide confusamente, su uno sfondo di casette e di canneti, la persona grossa e radiosa di una tedesca di mezza età circondata da cinque o sei ragazzetti maschi più o meno cresciuti. Fra costoro, il soldato, facendo un sorrisetto, gliene segnalò col dito uno (se stesso) più cresciuto degli altri, vestito di un giaccone a vento e di un berrettino da ciclista. Poi, siccome le pupille della signora svagavano su quel gruppetto anonimo in una buia apatia, passando a indicarle, col dito, il paesaggio e il cielo dello sfondo, la informò: «Dachau».

Il suo tono di voce, nel pronunciare questo nome, fu il medesimo che potrebbe avere un gattino di tre mesi reclamando la propria cesta. E d’altra parte quel nome non significava niente per Ida, la quale ancora non lo aveva udito mai se non forse appena per caso, senza tenerselo a memoria… Però a quel nome innocuo e indifferente, il forastico migratore in transito, che ora s’identificava col suo cuore, senza spiegazione sobbalzò dentro di lei. E svolazzando atrocemente nello spazio snaturato della stanzetta prese a sbattere fra un tumulto vociferante contro le pareti senza uscita. Il corpo di Ida era rimasto inerte, come la sua coscienza: senz’altro movimento che un piccolo tremito dei muscoli e uno sguardo inerme di ripulsa estrema, come davanti a un mostro. E in quello stesso momento, gli occhi del soldato, nel loro colore di mare turchino cupo vicino al violaceo (un colore insolito sul continente, lo si incontra piuttosto nelle isole mediterranee) s’erano empiti d’una innocenza quasi terribile per la loro antichità senza data: contemporanea del Paradiso Terrestre! Lo sguardo di lei parve, a questi occhi, un insulto definitivo. E istantaneamente una bufera di rabbia li oscurò. Eppure fra questo annuvolamento traspariva una interrogazione infantile, che non si aspettava più la dolcezza di una risposta; ma lo stesso la voleva.

Fu qui che Ida senza darsene ragione prese a gridare: «No! No! No!» con una voce isterica da ragazzina immatura. In realtà, con questo suo no, essa non si rivolgeva più a lui né all’esterno, ma a un’altra minaccia segreta che avvertiva da un punto o nervo interno, risalita a lei d’un tratto dai suoi anni d’infanzia, e da cui lei si credeva guarita. Come tornando indietro a quell’età, giù lungo un tempo che le si accorciava all’inverso, essa riconobbe istantaneamente quella grande vertigine, con echi strani di voci e di torrenti, che da piccola le annunciava i suoi malori. Ora il suo grido si rivoltava contro tale insidia, che la rubava alla salvaguardia della casa, e di Nino!! Però questa sua nuova, inspiegabile negazione (no, la sola risposta che lei gli avesse dato in questo giorno) agì sull’ira confusa del soldato come un segnale di rivolta per una trasgressione immensa. Inaspettatamente la tenerezza amara che lo aveva umiliato col suo martirio fino dalla mattina gli si scatenò in una volontà feroce: «…fare amore!… FARE AMORE!…» gridò, ripetendo, in uno sfogo fanciullesco, altre due delle 4 parole italiane che, per sua propria previdenza, s’era fatto insegnare alla frontiera. E senza neanche togliersi la cintura della divisa, incurante che costei fosse una vecchia, si buttò sopra di lei, rovesciandola su quel divanoletto arruffato, e la violentò con tanta rabbia, come se volesse assassinarla.

La sentiva dibattersi orribilmente, ma, inconsapevole della sua malattia, credeva che lei gli lottasse contro, e tanto più ci s’accaniva per questo, proprio alla maniera della soldataglia ubriaca. Essa in realtà era uscita di coscienza, in una assenza temporanea da lui stesso e dalle circostanze, ma lui non se ne avvide. E tanto era carico di tensioni severe e represse che, nel momento dell’orgasmo, gettò un grande urlo sopra di lei. Poi, nel momento successivo, la sogguardò, in tempo per vedere la sua faccia piena di stupore che si distendeva in un sorriso d’indicibile umiltà e dolcezza.

«Carina carina», prese a dirle (era la quarta e ultima parola italiana che aveva imparato). E insieme cominciò a baciarla, con piccoli baci pieni di dolcezza, sulla faccia trasognata che pareva guardarlo e seguitava a sorridergli con una specie di gratitudine. Essa intanto rinveniva piano piano, abbandonata sotto di lui. E nello stato di rilassamento e di quiete che sempre le interveniva fra l’attacco e la coscienza, lo sentì che di nuovo penetrava dentro di lei, però stavolta lentamente, con un moto struggente e possessivo, come se fossero già parenti, e avvezzi l’uno all’altra. Essa ritrovava quel senso di compimento e di riposo che aveva già sperimentato da bambina, alla fine di un attacco, quando la riaccoglieva la stanza affettuosa di suo padre e di sua madre; ma quella sua esperienza infantile oggi le si ingrandì, attraverso il dormiveglia, nella sensazione beata di tornare al proprio corpo totale. Quell’altro corpo ingordo, aspro e caldo, che la esplorava al centro della sua dolcezza materna era, in uno, tutte le centomila febbri e freschezze e fami adolescenti che confluivano dalle loro terre gelose a colmare la propria foce ragazza. Era tutti i centomila animali ragazzi, terrestri e vulnerabili, in un ballo pazzo e allegro, che si ripercuoteva fino nell’interno dei suoi polmoni e fino alle radici dei suoi capelli, chiamandola in tutte le lingue. Poi si abbatté, ridiventando una sola carne implorante, per disciogliersi dentro il suo ventre in una resa dolce, tiepida e ingenua, che la fece sorridere di commozione, come l’unico regalo di un povero, o di un bambino.

Non fu, per lei, neanche stavolta, un vero piacere erotico. Fu una straordinaria felicità senza orgasmo, come talora capita in sogno, prima della pubertà. Il soldato stavolta, nel saziarsi, ebbe un piccolo lamento fra altri bacetti, e, lasciandosi con tutto il corpo su di lei, sùbito si addormentò. Essa, tornata alla coscienza, sentì sul proprio corpo il suo peso che la premeva sul ventre nudo con la divisa ruvida e la fibbia della cintura. E si ritrovò con le gambe ancora aperte, e il sesso di lui, diventato povero, inerme e come reciso, posato dolcemente sul proprio. Il ragazzo dormiva placidamente, russando, ma, al movimento che lei fece per liberarsi, la serrò istintivamente contro di sé; e i suoi tratti, pure nel sonno, presero una grinta di possesso e di gelosia, come verso una vera amante.
Essa, tanto era indebolita, ebbe l’impressione, allo sciogliersi da lui, di durare una fatica mortale; ma finalmente le riuscì di liberarsi e cadde sui ginocchi in terra, fra i cuscini sparsi a lato del lettuccio. Si riassestò le vesti alla meglio; ma lo sforzo le aveva prodotto una nausea che le rivoltava il cuore; e rimase là dove stava, caduta sui ginocchi, davanti al divanoletto col tedesco addormentato.

Elsa Morante
(da La Storia, Einaudi, 1974)

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