Gabriella Maggio: “Un fortunato ritrovamento. Il ritorno di Omero, di Dante Maffìa”

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Chiunque possieda un numero sufficiente di libri da porsi il problema della loro sistemazione, sa che la questione non è affatto peregrina. Aveva ragione quel bibliotecario che asseriva solenne: le biblioteche sono governate da una scienza in sé e per sé, non c’è nulla da fare! (Marco Filoni, Inciampi, Italo Svevo, 2019).

Alcuni giorni fa, mentre cercavo un libro nella mia biblioteca, ho trovato, incollato ad un grosso volume (“Le famose concubine imperiali”, a cura di Ludovico Di Giura, ed. Arnoldo Mondadori 1958), un fascicolo azzurro, in parte ingiallito. Era Il ritorno di Omero di Dante Maffìa, scritto nel 1982 e pubblicato nel 1984 nei Sedicesimi di Letteratura, n. 5, supplemento a “Periferia”, n. 20, Cosenza, con prefazione di Giulio Ferroni. Il fascicolo contiene sedici brevi poesie che trattano di come Dante Maffìa riviva la poesia  dell’antico Omero. 

È opinione condivisa che la poesia sia un luogo fatto di memoria e di sentimenti, un continuo colloquio interiore del poeta con se stesso e con i propri autori; che sia un modo di essere nel  mondo e cercarne la verità. Chi come Dante Maffìa è nato sulle sponde del Mare Ionio, nell’antica Magna Grecia, percepisce nell’anima la presenza del confine geografico e letterario con la Grecia. Separazione e nello stesso tempo collegamento, ma soprattutto per i poeti autentici come Dante Maffìa irrinunciabile invito a fare poesia, a ridefinire la propria identità culturale e umana. Mescolando la propria voce poetica a quella dell’antico Omero, Dante Maffìa rielabora il mito del cieco cantore in maniera originale, facendo riferimento alle inevitabili “modificazioni” del mito stesso, generate dal susseguirsi degli accadimenti, che ne scandiscono la distanza, e nello stesso tempo definendo le “persistenze”: «c’è sempre qualcuno che porta i miei occhi, / qualcuno che dice ciò che ho detto», in nome dell’universalità della poesia teorizzata da Aristotele nella “Poetica”.

Tra i due poeti c’è uno scambio fecondo d’identità, per cui Omero vs. Dante può dire: «Scendo nelle profondità del vento, / aspiro il nettare dolce del trapasso, / muto di conoscenza in conoscenza, / mi trovo in ogni forma, in fasi alterne / di secoli bugiardi, di deliri». L’esperienza personale di Dante Maffìa, che intreccia  quotidiano, ricerca esistenziale e desiderio di autenticità umana, è resa sulla pagina filtrata dalle trasparenze mitiche che avvolgono Omero: non avere nessuna patria, il proprio maledetto vagare. L’Omero di Dante Maffìa arriva per mare, remando «su una piccola barca… / non è cieco, cerca un tempo / ignoto alle pupille, ma nel cuore impresso». Come acutamente nota Giulio Ferroni nella prefazione, questo Omero è simile a Caronte, è un traghettatore che unisce le due rive non dell’Acheronte, ma del Mare Ionio, accompagnando il compimento della poesia dell’audace Maffìa.

Leggendo i versi de Il ritorno di Omero qua e là traspare sia la mediazione culturale dell’Alighieri, che tuttavia non osava identificarsi con i poeti antichi (accontentandosi di essere sesto tra cotanto senno  o di gareggiare con Ovidio e Lucano come nella iactatio del canto XXV dell’Inferno), e di Ugo Foscolo, che in quel mare greco ebbe “la culla”. Il «signore dell’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola», secondo le parole dell’Alighieri nel IV canto dell’Inferno, ha abbandonato il nobile castello, ora si contamina con l’identità incerta del poeta contemporaneo, si frantuma per esprimere i sentimenti degli uomini d’oggi, velleitari che posano a eroi: «Sminuzzato e rifatto in particole, / in diseguali miti / inseguo me stesso. I traguardi sono perduti». Di questi tempi si è Eroi solo per un giorno come canta David Bowie in Heroes. Il poeta Omero-Dante resta nella zona d’ombra dell’esserci: «Potessi ancora diventare Ulisse… / Ritroverei la forza del mio canto…» Insieme agli eroi, anche il canto epico che li ha creati cede – nei versi del poemetto – all’elegia del «primo fiato d’erba… dei colori dell’aprile». La parola risolutrice dev’essere cavata dal buio del cuore con fatica simile a quella del minatore che estrae la materia preziosa dalle cavità della terra. E non è più certa la fama, quella che arriva a chi viene dopo e lo nutre come il frutto maturo che si disfa nella terra e si fa nuovo cibo. Ma come il giovane Holden nel romanzo di Salinger si chiede dove vadano le anatre quando gela il laghetto di Central Park, Dante Maffia-Omero si chiede: «Dove sono i miei versi?… / La mia parola chissà / se come frutto si dissolve / o resta al fondo / di simboli segreti…» Eppure Maffia sa di germogliare dal quel seme dell’antico Omero, e nonostante tutto si apre alla fiducia: «Perché la parola vince, apre le tenebre… / non s’arrende all’inerzia della carta». E ne è consapevole. Dal suo solitario raccoglimento il poeta trova difesa e consolazione nell’affascinante viaggio culturale che salda passato e presente, nel convincimento della centralità della Grecia nella stratificazione culturale dell’Occidente. La sua ardita operazione culturale consiste nella traslitterazione del mondo epico in elegia. Il passato assoluto, i miti destinati a compimento, il paradigma dei valori accettati e condivisi si problematizzano e frantumano, diventando ricerca e domanda di senso. È acuta la consapevolezza di un’unità irrimediabilmente perduta nel mondo contemporaneo, proposta nella ripresa del mito di Eurinome e Ofione: «Eurinome trasale, la sua carne / s’apre alla demenza».

Il ritorno di Omero è un’opera di forte impatto emotivo ancora oggi, strutturata su una vasta cultura rivissuta con piena consapevolezza di ciò che necessariamente muta e ciò che resta, pur nella incessante metamorfosi odierna: il canto dei poeti. Il ritmo dei 16 componimenti è fluido, le immagini visive e sonore si susseguono senza interruzione. È frequente l’uso dell’enjambement che dà risalto alle parole, mentre la sintassi semplice asseconda il movimento espansivo del pensiero, dal mito alla quotidianità.

                                      Gabriella Maggio

 

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