“I due volti della pioggia”, di Patrizia Pallotta, letto da Marco Onofrio

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“I due volti della pioggia” (Aracne, 2017, pp. 120, Euro 12) è un romanzo riuscito, interessante, di grande attualità. La scrittura è apprezzabile: poetica e ricca di sfumature, come spesso accade nelle prose di Patrizia Pallotta, ma stavolta più di altre attenta a stabilire col lettore un patto di chiarezza comunicativa per cui il libro appare sempre lucido, strutturato e organico, ovvero conseguente alle premesse che si dà. La narrazione qui si fonda su un palpabile equilibrio di toni: psicologico, poetico, esistenziale, sociale, cronachistico. C’è una sapiente gestione di piani paralleli: si sviluppano in contemporanea, senza mai prevalere l’uno sull’altro. Patrizia Pallotta riesce a incardinare l’umanità e il valore universale di una vicenda per così dire “eterna” (in cui tutti potremmo identificarci) nella scansione inesorabile e incalzante della storia contemporanea. Ecco la piaga sanguinante della guerra in Siria: 353.000 morti in 7 anni, tra cui quasi 20.000 bambini! E, al di là della fattispecie, lo scandalo infinito di ogni guerra: la dichiarano i potenti che – d’accordo con petrolieri e fabbricanti d’armi – fingono per un po’ di odiarsi, ma a cui non si torce neppure un capello; mentre la subiscono i civili innocenti, che muoiono sul serio. Poi, finite le ostilità, i potenti si riabbracciano come se nulla fosse accaduto, e i morti sono morti per sempre.

Jimmy Hill, protagonista del romanzo, è un ex sergente maggiore dell’esercito americano: va in Siria fingendo di partecipare alle azioni militari; in realtà per combattere una guerra dentro sé stesso. Dalla Siria spedisce lettere fittizie alla moglie Mathilda: castelli di bugie che gli consentono di provare a cominciare un’altra vita, di guardarsi da fuori, di mettersi in gioco. Una legge psicologica del profondo dimostra che l’opposto conduce all’opposto: certe volte occorre mentire per essere creduti, o per raggiungere la verità che si cerca. Grazie a queste lettere, dove immagina e descrive azioni di cui non è protagonista ma solo indiretto spettatore (respira certo aria di guerra: di fatto non la combatte), Jimmy può giustificare la sua lontananza da casa: ha bisogno di tempo e solitudine per “scansionare” a ritroso il passato, scavando con mani frenetiche alla ricerca dei perché di una vita “erroneamente impostata”. È un uomo in crisi d’identità, arrivato al culmine del suo grigiore, fatto di malessere e disordine mentale. Ha la vocazione dello scrittore, per sensibilità e capacità compositiva, come si evince leggendo le lettere alla moglie. E che esse siano fittizie, conferma questa vocazione: in fondo ogni scrittore è un mentitore, un “fandi fictor” ulissiaco che scrive lettere immaginarie al mondo, al vuoto, all’ignoto, all’amore, alla morte.

Jimmy ha vissuto per anni in bilico, “con accanto una bilancia quotidiana che qualche volta pesava sul rimpianto e qualche volta sulla speranza”. È questo, in fondo, il nostro esistere. Da una parte l’io, dall’altra il mondo; da una parte il sogno, dall’altra la realtà; da una parte la luna silenziosa ed enigmatica, dall’altra il frastuono inutile e pernicioso prodotto dagli uomini. La guerra è quell’evento terribile che manifesta tutto il “dolore del mondo”: tensione continua, stress, nervi a pezzi, occhi gonfi di terrore, boati, attentati, kamikaze che si fanno esplodere, la morte che “aleggia sfiorando i vestiti”, basta un attimo per ritrovarsi spappolati. C’è un richiamo ungarettiano (VEGLIA: “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato”) nella notte passata, ad Aleppo, “accanto a un cadavere” e quel suo sguardo indimenticabile, “aperto sul vuoto, in pace con la guerra e con il mondo intero”: dove riecheggia fors’anche il tristemente celebre filmato di un giovane soldato che moriva in diretta (i suoi occhi azzurri fissi che si freddavano) durante la guerra in Jugoslavia negli anni ’90. Ha una potenza metafisica di rivelazione questo motivo dello sguardo dei morti: fisso, a volte pacificato a volte no, pieno di stupore e finalmente libero, separato, eterno, disanimato, ormai oltre la vicenda umana.

Jimmy è un disertore dalla sua famiglia, un uomo in esilio che si sente “estraneo al mondo, un pellegrino senza terra e senza patria”, uno “straniero che vive di rimpianti e di nostalgia in una città sconosciuta”. È fuggito dal caos interiore che gli dava la vita americana, nell’Illinois, per cercare la pace; così – sempre per la legge degli opposti – è venuto a cercare la pace nel pieno della guerra, laddove la vita non è vita, è inferno. È la prova iniziatica del fuoco: solo i metalli preziosi resisteranno alla fiamma, tutto il resto brucerà come inessenziale. In Siria il mosaico delle certezze di Jimmy si sgretola completamente. Ma è una tappa obbligata: o rinascere, o perire. Scrive Kahlil Gibran: “Per arrivare all’alba, non c’è altra via che la notte”. Chi esorcizza la propria guerra interiore è destinato a combatterla per sempre.

Jimmy così, al culmine del pericolo, torna a contattare “la parte più intima dei suoi pensieri”, quella “taciuta persino a sé stesso”. Il naufragio temporaneo del suo matrimonio fallimentare gli permette di affrontare de visu il mistero dell’esistenza. Quando arriva in Siria è un uomo spento, provato, privo di sogni, devastato dalla pesantezza della routine, dalla stanchezza dei doveri familiari (che si danno per scontati, e in genere non contemplano il “grazie”). Il matrimonio con una donna sbagliata, Mathilda, lo ha costretto all’ipocrisia, a un’esistenza accomodante, al quieto vivere. Ma ora Jimmy ha bisogno di riattivare “il compartimento più ampio del cuore”, di provare nuove emozioni, di riprendere in mano la propria vita. La famiglia è stata una prigione di regole e convenzioni che lo hanno costretto – per ragioni di sopravvivenza – a un “carosello di giochi di fughe di bugie e di intrecci amorosi con altre donne”. E ha dovuto sempre indossare la maschera “d’una falsa allegria”, la maschera perbenistica del “padre di famiglia”. Mentire era ed è il filo d’Arianna per uscire dal labirinto di una realtà che lo schiaccia e lo umilia; solo che prima le bugie erano fini a sé stesse, ora lo aiutano a ritrovare la verità.

Come insegna da sempre la poesia, le cose si trovano nei posti più impensati. Così Jimmy: trova la sua pace interiore nel luogo più insospettabile, a migliaia di chilometri da casa e nel cuore orrendo di una guerra. Incontra un bambino che si chiama Peter, come suo figlio, e conosce sua madre Samira, che è l’esatto opposto di Mathilda: pacata, dolce, altruista, accondiscendente, laddove quella è aggressiva, dispotica, egoista, manipolatrice. Samira gli offre le mani che lo salvano dal baratro: grazie a lei e a suo figlio Peter, Jimmy trova ciò che gli era sempre mancato, “quel buon profumo di pane fatto in casa, la spontaneità di gesti mai sacrificati a una assurda etichetta, il lasciarsi andare e tirare fuori le emozioni represse, permettendo loro di correre liberamente insieme all’ombra di un sorriso, senza ritegno, nello spazio dell’anima”. Casa è dove ci sentiamo felici, è dove c’è famiglia vera: Jimmy può sentirsi a casa, a casa di Samira e Peter dove a un certo punto si trasferisce, perché è forse il primo posto del mondo in cui non sente la necessità di difendersi, e quindi può essere sé stesso. Infatti prende finalmente in mano la sua vita: sente di contare qualcosa, di avere valore per qualcuno: “dopo tanto tempo, aveva trovato chi lo rispettava e lo considerava un uomo, la sua famiglia era quella”. La pace è controbilanciata da una lacerazione interiore tra amore e psiche che lo rende combattuto tra sentimenti, sensi di colpa e doveri. Torna in America perché nel frattempo Mathilda si è ammalata, ma si sente più che mai un estraneo, anche con il figlio: casa sua ormai è in Siria, da Samira e Peter: “fosse stato per lui avrebbe ripreso subito l’aereo”.

Ci troviamo davanti a un romanzo che tematizza la complessità dell’animo umano, matassa ingarbugliata, sporca, imperfetta, piena di contraddizioni. Siamo creature ambivalenti: “la natura umana è contraddittoria e mutevole”. Dov’è il male? Fuori o dentro di noi? Ecco perché il titolo, I due volti della pioggia. Perché Jimmy prende la pioggia – che cancella la polvere dell’esistenza – in due luoghi diversi del mondo; perché batte fuori e anche “dentro di lui”; perché la pioggia “non è mai la stessa (forte sottile insistente repentina) proprio come le storie della vita”.

È anche un romanzo sull’importanza del tempo (“la maggior parte delle nostre azioni scaturiscono da complementi di tempo, tempo dannato che non parla, non risponde alle nostre domande, agisce semplicemente e ciò che accade è la sua risposta alle nostre domande”); sulla gestione complicatissima dei rapporti umani, in una jungla “d’artificio e d’impostura”; sulla capacità di resilienza (“Da qualsiasi punto, anche se negativo, è necessario ricominciare, guardare avanti, e fare altri progetti, sognare forse e mai smettere di farlo”; vedi anche il colophon da Gandhi), e insomma sulla ricerca dell’autenticità: la possibilità di affermare il proprio percorso, una vita da vivere, con il diritto sacrosanto di amare e di essere amati, godendo pienamente delle piccole cose – le più importanti!

Il finale è, naturalmente, aperto: non sappiamo dove Jimmy sceglierà di vivere, ma facciamo in tempo a capire che troverà il coraggio di diventare lo scrittore che già è. La sua vicenda esemplare permette di sondare non solo gli abissi eterni del cuore umano, ma anche – con pregnante forza metaforica – quelli contingenti della nostra epoca convulsa, come in questa descrizione, che mi sembra perfettamente applicabile al mondo contemporaneo:

Era una zona circondata da una cortina di ferro dalla quale non si poteva uscire, una morsa allo stomaco che durava da anni, dalla quale non si riuscivano a sciogliere i nodi, neppure frammenti, era come se vi fosse un caos di cervelli seduti al tavolo di trattative senza firma… e vittime a subire. Nessuno ascoltava più nessuno…

Patrizia Pallotta dà abilmente vita a un romanzo che – tra realtà e simbolo – si inscrive nell’archetipo narrativo di “viaggio nel cuore umano”: con questo libro sviluppa la sua capacità di creare un mondo autonomo di pensieri e sentimenti, entrando in risonanza con i “perché” decisivi dell’esistenza e rievocando echi di quell’antico discorso rituale che, nella sua perennità, rivela la molla segreta delle azioni e, in definitiva, il senso del nostro passaggio sulla terra.

Marco Onofrio

 

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