“In amore”, di Fabio Scotto, letto da Dante Maffìa

scotto
Fabio Scotto

Seguo la poesia di Fabio Scotto fin dal suo esordio e devo dire che il suo passo cadenzato e forbito negli anni si è arricchito e diversificato toccando spesso vertici espressivi ormai sconosciuti alla gran parte dei facitori di versi di cui è piena la nostra povera Italia. Un pullulare di versificatori che inventano qualche bizzarria, scampoli e rimasticazioni di una post-avanguardia ormai, per fortuna, allo sbando e nullificata da una presa di coscienza delle giovanissime generazioni; una coscienza che non era mai svanita nelle opere di poeti come Scotto.

Sarà pure stata l’educazione costante sui testi dei grandi autori francesi, sarà stata la cultura di Scotto, ampia e dettagliata, la sua sensibilità verso il senso vero della poesia, fatto è che nei suoi libri scorre il lievito dolceamaro dei sussulti delle emozioni dell’incanto e del disincanto. Leggendo In amore (Passigli 2016) le sue doti appaiono con maggiore rilievo, alcuni grumi antichi si sono sciolti in un canto lucido e addirittura a volte ironico, e la parola è diventata sostanza di vita, “luogo” dove si sono depositati tutti gli umori del poeta, tutti i sogni, le delusioni, “note effuse / di Venere vera / quotidiana”. Fabio Scotto non cincischia, non gioca col fuoco dei sentimenti, li vive e li affronta, li corteggia e li accusa, li accarezza e li respinge in un frenetico abbraccio che ci dà la misura di come egli sappia penetrare a fondo nella psiche umana e sappia trovare, poi, la nota giusta per condividere con il lettore i turbamenti, le accensioni, le delusioni, le attese e i trionfi, nell’accezione più classica del termine. È vero, “a volte la spinta segue un movimento errante, dove i legami sintattici avvengono in virtù di aggregazioni automatiche favorite da un linguaggio che salda insieme auscultazione, pensiero, cronaca e lessico moderno”, come scrive Gabriele Morelli nella lucida e davvero esemplare prefazione al libro, ma in Fabio non ci sono mai deflagrazioni di carattere squisitamente filologico o invenzioni gratuite per sbalordire ed essere a tutti i costi originale. Semmai, il suo inseguimento verso la fuga delle immagini e il loro contorcersi è un susseguirsi di momenti di stupore che il poeta non vuole far perdere nella deriva, non vuole cancellare come se fossero appena casuali momenti di consapevolezza. È come se il poeta avesse un bisogno assoluto di convogliare nell’attimo presente tutto il suo mondo passato e tutti i sogni, in modo che la vita trovi l’istante, il baleno del fulgore e della sostanza umana più straordinaria e più luminosa. Non è una operazione alla T. S. Eliot, ma l’abbaglio dell’incanto che deve incarnarsi nella “viventia” e non sparire nel mucchio dell’effimero. “Ti mando le mie labbra / per baciare / Ti mando le mie dita / per accarezzare / La lingua / per parlare / Il cuore / per amare / Un coltello / non per farti male / ma per difenderti / Tranquilla / che presto vengo a prenderti”. Ecco, anche la lontananza ha sapore di presenza concreta e vissuta nel presente.

Ma al di là del “racconto” di questo amore, in un libro di poesia interessa vedere se in definitiva si è riusciti, pagina dopo pagina, a creare le atmosfere che accendono sensi nuovi verso il magico sentimento, se il sentimento dell’autore è riuscito a produrre la magia di fare sentire anche il lettore partecipe, attivo negli incontri (“Vederti / ogni istante / esserci e sparire / Vederti / solo vederti / Non morire”). Sono versi che non appartengono soltanto a Fabio Scotto, ma a tutti noi, perché condensano quella che Giacomo Leopardi chiamava “la battaglia d’amore” che travaglia. Sosteneva un grande critico che tutti i veri, grandi libri di poesia sono libri d’amore. Concordo pienamente, perché, sono sempre i grandi critici a sostenerlo e a ribadirlo, anche la cosìddetta poesia civile, quando si fa canto universale, nasce dall’ amore, da quel filo lirico che sa cogliere il fluire del tempo, l’indicibile e l’invisibile, e renderlo perfino risentimento, amarezza, rancore. Quel che fa Fabio Scotto, sotto l’ombra lontana di Umberto Saba. Egli riesce a restare lirico di forte potenza sliricizzando immagini, metafore, fatti e sensazioni e il risultato è questo In amore che io trovo sinfonia alta e a volte struggente (non storcano il naso i vari Majorino e i vari Cucchi), poesia piena e consapevole, appropriazione di una nuova realtà che fuggendo lascia tracce indelebili e fa sentire la musica delle sfere. Insomma, l’opera matura di uno dei poeti più agguerriti e più interessanti della generazione dei nati negli anni cinquanta e sessanta.

Dante Maffìa

 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.